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Una nuova geografia disegnata dalla crisi

di Giorgio Barba Navaretti

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29 ottobre 2008

Bollettino di guerra o quasi dai Paesi emergenti. La crescita cinese rallenta. I produttori di petrolio e gas faticano a fronteggiare l'improvviso calo dei prezzi. La borsa russa chiude i battenti a intermittenza. Il campanello alla porta del Fondo monetario internazionale, arrugginito da anni di crescita globale, riprende a suonare. La marea della crisi finanziaria, insomma, ha raggiunto le coste lontane dei Paesi in rapido sviluppo. Le ultime locomotive con ancora un po' di vapore rallentano: con quali implicazioni per la soluzione della crisi stessa e soprattutto per le sue ricadute sull'economia reale? Giustamente la settimana scorsa il Governatore Mario Draghi ha aperto la sua relazione al Senato sulla crisi finanziaria ricordando come questa abbia origine «nei cambiamenti strutturali che hanno caratterizzato negli ultimi anni l'economia globale», nella straordinaria crescita dei Paesi emergenti accompagnata da profondi squilibri macroeconomici, soprattutto «una cronica carenza di risparmio, particolarmente negli Stati Uniti». Capire il ruolo di questi Paesi nella nuova economia globale ci aiuta anche a far luce sugli effetti del loro rallentamento.
I punti essenziali sono tre. Il primo è il loro contributo alla crescita. Se ancora nel 2007 il prodotto interno lordo reale mondiale è cresciuto del 5%, questo è in gran parte riconducibile all'espansione della Cina (da sola vale il 10% del Pil globale) e delle altre economie emergenti. Il secondo è che per molti di questi Paesi la crescita è stata trainata dalle esportazioni e dunque ha generato straordinari surplus di bilancia commerciale e accumuli di riserve, in gran parte confluite a finanziare il deficit di risparmio, soprattutto americano. A fine agosto 2008 il 46% dei titoli del Tesoro Usa detenuti da stranieri era nelle mani dei Paesi emergenti: un controvalore di 541 miliardi di dollari per la sola Cina (307 per la Gran Bretagna e 41 per la Germania, per avere un paragone).
Il terzo punto è che la crescita delle economie in rapido sviluppo ha permesso una ricomposizione geografica della produzione globale di beni e servizi, con guadagni di efficienza per le imprese dei Paesi industrializzati ed anche una riduzione dei prezzi per i consumatori.
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I Paesi emergenti non sono, infatti, solo grandi mercati. Molti di loro sono oggi fondamentali luoghi di produzione, anche per le nostre imprese.
Se questo è il ruolo che queste economie hanno avuto fino ad ora, cosa consegue al loro rallentamento? Non tutti i componenti del gruppo hanno le stesse prospettive. La Cina comunque nel 2008 continuerà a crescere oltre il 9% (l'Fmi prevede una crescita mondiale del 3,9% per il 2008). Ma il destino degli altri dipende da quanto abbiano utilizzato gli anni buoni per diversificare la produzione e per stabilizzare il quadro macroeconomico. Oggi diversi Paesi godono di condizioni macroeconomiche più equilibrate del decennio precedente. È il frutto buono delle ricette dettate dal Washington Consensus, che in molti vorrebbero buttare fuori dalla finestra: se Fmi e Banca mondiale non avessero predicato per decenni la centralità della stabilità macroeconomica - anche se a volte con una buona dose di miopia - oggi la crisi per questi Paesi potrebbe essere ben più grave. Gli effetti peggiori, dunque, saranno su nazioni che continuano ad essere specializzate nella produzione di materie prime (Russia) o che hanno finanziato la propria crescita con finanziamenti esteri, mantenendo un deficit delle partite correnti (Ungheria).
Luci e ombre sull'economia reale, ma cosa si può dire per gli equilibri finanziari? Anche se continueranno ad affluire risorse, i flussi di denaro dai Paesi emergenti si ridurranno. I debiti pubblici e privati dei Paesi avanzati, che questi flussi hanno finanziato (e preservato), non sono più sostenibili o comunque dovranno essere coperti in modo crescente dal risparmio interno. L'impellenza di riequilibrare i conti contrasta con le previsioni di aumento dell'indebitamento pubblico sia in Europa che negli Stati Uniti, conseguenza degli interventi sui mercati finanziari e del rallentamento dell'economia. Ci sarà, così, molto poco margine per usare la leva fiscale per rilanciare la domanda.
Infine, in questa fase in cui è molto facile attribuire alla globalizzazione la colpa di quanto è accaduto sui mercati finanziari, è opportuno ricordare che le economie reali sono e rimangono profondamente integrate. La produzione di beni e servizi è frammentata su più Paesi e diffusa su tutto il globo. La dispersione verticale della produzione renderebbe estremamente costoso ritornare indietro dal processo di integrazione, soprattutto reale, con le economie emergenti.
Per questi motivi, come ha ricordato ieri Alessandro Merli su questo giornale, la partita sulle nuove regole per il governo dell'economia globale, iniziata con il vertice Asia-Europa a Pechino e che continuerà con il G-20 convocato a metà novembre negli Stati Uniti, non può prescindere dalle nazioni in rapido sviluppo. Anzi è un'occasione importantissima per riavviare il processo di dialogo globale ormai da tempo incagliato. In questo quadro è però importante essere molto lucidi. Se la finanza ha bisogno di nuove regole, questa non può diventare una giustificazione per retrocedere sulla strada dell'integrazione dell'economia reale, soprattutto con i Paesi che oggi hanno il maggiore potenziale di crescita futura.

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